Gian Maria Gros-Pietro Presidente di Intesa Sanpaolo

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Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore
Mi piace l’economia. Anche per questo riuscii a laurearmi in Economia e Commercio a soli 22 anni, all’Università di Torino, nonostante avessi svolto una contemporanea attività lavorativa: gestivo una piccola agenzia di assicurazioni. Fu un’esperienza utilissima per condividere gli “spirits” che animano gli operatori economici. Ma non era quello il mio destino. Come capita a molti studenti, fui affascinato da un professore, Federico Maria Pacces, persona di vivacissima intelligenza e di grande cultura internazionale: mi instillò la curiosità per il funzionamento delle imprese, che studiava secondo i principi della management science anglosassone. A questa impostazione unii la curiosità per il funzionamento del sistema nel quale le imprese agivano. Sotto la sua guida feci una tesi di ricerca empirica; volevo costruire una mappa che mostrasse i legami che univano le principali società quotate italiane. Utilizzando le poche fonti allora disponibili, essenzialmente quelle dell’Assonime, riuscii a costruire la mappa, che mostra- va una sorta di sistema galattico, costituito da alcuni corpi principali, che irradiavano legami di tipo stellare verso le controllate e le partecipate; ma la cosa più interessante erano i legami “interstellari”, che correvano direttamente fra alcune delle stelle, e soprattutto i legami indiretti, costituiti dalle compartecipazioni di diverse stelle su controllate, o addirittura rapporti di partecipazione incrociata, che allora erano leciti e servivano a consolidare alcune posizioni di controllo. Sulle altre emergevano allora tre galassie, che ruotavano attorno a Mediobanca, a Edison, e alla finanziaria Strade Ferrate Meridionali. Appena laureato, il professor Pacces mi invitò a iniziare una carriera universitaria nel suo Istituto: rifiutai dicendo che l’università non mi interessava, mi piaceva il management. Mi disse: benissimo, la assumo nel mio Centro di Ricerca, convenzionato con il Consiglio Nazionale delle Ricerche, dove facciamo ricerca sulle imprese e sul management, dal mese prossimo; intanto, da subito, lei diventa mio assistente volontario (un ruolo formale ma gratuito) all’università. Così iniziai a fare ricerca, occupandomi di una questione connessa con la mia tesi di laurea: la concentrazione. Ci lavorai con passione, imparai a conoscere i segreti delle rilevazioni Istat e scrissi il mio primo libro. Nel Centro di Ricerca lavoravano sociologi, aziendalisti, economisti, informatici, esperti di finanza, di marketing, di comunicazione, e due assistenti di ruolo del Prof. Pacces, Giovanni Zanetti e Enrico Filippi, con i quali i rapporti divennero subito molto stretti. Pacces sapeva convincere e motivare le persone: mi indusse a occuparmi anche della Scuola di Amministrazione Industriale, una scuola a fini speciali dell’università di Torino da lui fondata, finanziata da imprese private (Fiat e Olivetti in primis), dalla Camera di Commercio e dall’Unione Industriale. Vi insegnavano manager veri, poco esperti di attività didattiche, per cui erano affiancati da giovani assistenti- ricercatori. Fui assegnato all’area della produzione per assistere un grande manager Fiat; in pochi anni divenni docente di Organizzazione della Produzione e poi capo del Dipartimento di Produzione; contemporaneamente dovevo insegnare (gratuitamente) Economia dell’Impresa all’università. Il contatto con i manager,l’attività personale di ricerca, l’insegnamento non tradizionale costituivano un insieme per me stimolante. Poi Pacces andò in pensione e quel sistema, che teneva insieme ricerca di avanguardia, insegnamento non tradizionale e rilevanza accademica, e che era centrato sulla sua persona, minacciava di sfaldarsi. I suoi tre assistenti si improvvisarono continuatori della sua opera. Zanetti, che aveva più anzianità accademica, assunse la Direzione della Scuola di Amministrazione; a me, che ero il più giovane, toccò dirigere il Centro di Ricerca sull’Impresa e lo Sviluppo (Ceris), che era in gravi difficoltà. C’erano stati ritardi nei finanziamenti; per non sospendere le ricerche, Pacces aveva fatto ricorso a un prestito bancario, strumento non ammesso dal CNR. Tentai una manovra ardita: chiesi un’ispezione ministeriale, che arrivò, constatò che non c’era stata sottrazione di fondi e sanò il tutto, senza tuttavia ammettere il pagamento di interessi passivi alla banca. Scrissi alla banca che gli interessi passivi non li avrei pagati; non protestò. Ma bisognava cambiare. Ottenuto il rinnovo dei fondi, trasformai il Ceris da centro convenzionato in centro proprio del CNR, e successivamente in Istituto, organo permanente. Lo diressi per 21 anni. Alla fine era diventato il maggior organo del CNR in campo economico. Le mie ricerche mi portavano dentro le aziende, visitarle mi piaceva, parlare con gli imprenditori ancora di più. Fui sempre più spesso invitato a convegni e iniziative industriali. Sotto la guida di Filippi, dotato di una eccezionale competenza finanziaria, cominciammo a costruire un archivio di bilanci delle imprese, da usare per ricerche economiche: per studia- re l’andamento di un settore, esaminavamo la somma dei bilanci delle imprese che lo componevano. Era una metodologia che gli accademici italiani della materia consideravano eretica: se avessi avuto ambizioni accademiche l’avrei evitata, ma poiché non ne avevo, continuai per la mia strada, guidato dalla curiosità. Nel 1979 venne il riconoscimento per me più importante, dal mondo operativo: l’Istituto Bancario San Paolo di Torino, nella persona di Alfonso Iozzo, ci mise a disposizione il loro immenso archivio di bilanci affinché, con le nostre metodologie, conducessimo insieme ricerche di economia dell’impresa. E ci pagò per questo, cosa che allora trovò piuttosto impreparate le strutture amministrative centrali del CNR. Il riconoscimento definitivo venne quando la Banca d’Italia decise che le banche italiane, come quelle dei paesi più avanzati, avrebbero dovuto disporre di una Centrale dei Bilanci: le indusse a costituirla, e a collocarla a Torino, localizzandola proprio di fronte al Ceris, da cui assunse un buon numero di ricercatori, i quali gradirono il cambiamento di trattamento economico.
I progetti di ricerca di cui mi occupavo personalmente all’interno del Ceris erano quelli che avevano a che fare con la tecnologia. Stabilii rapporti principalmente con le Associazioni Industriali dei produttori di meccanica strumentale. Il Ceris entrò a far parte dei Progetti Finalizzati CNR nel campo prima delle Tecno- logie Meccaniche, poi della Robotica. Collaborai con la squadra di ricercatori che parteciparono, per l’Unione Europea, al progetto di ricerca (UE, Usa, Giappone, Canada) Next Generation Manufacturing System: svolsi attività a Vancouver, Dallas, Tokyo, Helsinky, Sidney, Bruxelles. Fui invitato a presentare al MIT di Boston i miei studi sul contributo dell’automazione flessibile allo sviluppo dell’economia distrettuale italiana. Le competenze nel campo delle tecnologie industriali e dell’economia dell’impresa fecero sì che il Ministero dell’Industria chiedesse ripetutamente il mio intervento per pareri tecnici: a partire dalla seconda parte degli anni Settanta collaborai praticamente con tutti i Ministri dell’industria, sempre sul piano tecnico, anche svolgendo analisi per conto del Comitato Inter- ministeriale dei Prezzi. Dal Ministro Carlo Donat-Cattin mi venne affidato il coordinamento del Piano di Settore per la Meccanica Strumentale (legge 675/1977, Ristrutturazione, Riconversione e Sviluppo Industria- le). Collaborai anche con altri Ministeri: Partecipazioni Statali, Finanze, Tesoro, Bilancio, Università e Ricerca, sempre ed esclusivamente per contributi tecnici. Nel 1980 vinsi la cattedra di Economia dell’Impresa presso la Facoltà di Economia dell’Università di Torino: la carriera universitaria, che non avevo cercato inizialmente, mi si era aperta grazie ai risultati della ricerca, rivelandomi quanto sia efficace, anche ai fini del consolidamento dei risultati della ricerca, il fatto di essere indotti a sistemarli in modo che appaiano interessanti e convincenti per un pubblico di studenti sofisticati e criticamente esigenti. Restando fedele a quella cattedra svolsi attività didattica anche per altri Atenei, in particolare per i Corsi di Specializzazione in Ingegneria Gestionale del Politecnico di Torino e per l’Istao di Ancona. Feci parte, in rappresentanza del CNR, del Consiglio di Amministrazione dell’Università di Torino dal 1983 al 1996; e del Senato Accademico del Politecnico di Torino, dal 1993 al 1997. Rimasi all’Università di Torino, con la sola interruzione, per obbligo di legge, degli anni trascorsi alla Presidenza di IRI ed Eni, di cui dirò dopo. Nel 2004, essendo divenuto difficile conciliare la docenza a Torino con impegni societari a Roma, mi trasferii alla Luiss di Roma, dove costituii il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali, che diressi dal 2004 al 2011. La frequentazione delle imprese, cui mi dedicavo intensamente, portò le prime richieste di partecipare, quale esperto, a qualche Consiglio di Amministrazione: la prima volta fu nel 1980, presso la Cogesta SpA, una società finanziaria. Dal 1983 al 1986 feci parte del CdA e del Comitato Fidi della Fincimu, la finanziaria dei costruttori di macchine utensili, addirittura ricoprendo per sei mesi il ruolo di Amministratore Delegato: era un momento difficile per quell’industria, e i componenti di quel CdA, industriali del ramo, sentivano il bisogno di affidare a un esterno pratico del settore e in possesso di competenze economiche, alcune decisioni delicate che potevano riguardare i loro concorrenti. La mia prima esperienza in una società quotata fu con Teknecomp, 1986-1990: era un momento di borsa favorevole, il Gruppo De Benedetti vide l’opportunità di raccogliere capitali scorporando alcune produzioni di componenti e quotandole. Teknecomp produceva circuiti stampati, dischi di memoria e altri componenti: le fu dato un CdA innovativo per l’epoca perché comprendeva, sotto la Presidenza dell’Ing. Franco De Benedetti, anche tre Consiglieri indipendenti: Giampio Bracchi (Politecnico di Milano), Fabrizio Onida (Università Bocconi) e me. Dal 1987 al 1990 ebbi un’esperienza particolare, per me di grande interesse: feci parte del Comitato per la Gestione delle Attività di Ricerca e Sviluppo del Gruppo SIV – Società Italiana Vetro; ricordo che fra le ricerche allora in atto ve ne era una tendente a trasferire in campo automobilistico lo Head-Up Display, il dispositivo che consente ai piloti da caccia di vedere proiettati sul parabrezza alcuni dati essenziali, dispositivo che solo oggi comincia ad essere offerto su alcune auto di alta gamma. Nel 1995 lasciai la Direzione del Ceris a Secondo Rolfo, un ottimo ricercatore cresciuto all’interno, e assunsi la Presidenza dell’Area di Ricerca CNR di Torino, cui fanno capo gli Istituti piemontesi del CNR, operanti in diversi campi della scienza. La prima metà degli anni ’90 fu un momento di grande fermento politico. Si cominciò a parlare di privatizzazioni. Nel novembre del 1994 il Governo Berlusconi istituì il Comitato di Consulenza Globale e di Garanzia per le Privatizzazioni, presieduto dal Direttore Generale del Tesoro Mario Draghi: io ne facevo parte, e vi venni confermato dal Governo Dini che subentrò nel gennaio 1995. In quanto tecnico con competenze economiche e con conoscenza della gestione di diversi ministeri, venni preso in considerazione per l’attribuzione di incarichi che, fino a poco tempo prima erano affidati a personale politico. Nel settembre 1995 fui nominato nel CdA dell’Anas, che doveva essere ristrutturata; sette mesi dopo mi dimisi perché non mi sembrava che il CdA portasse avanti il mandato ricevuto con sufficiente energia. Nella primavera del 1997 il Presidente dell’IRI, Michele Tedeschi, mi propose la carica di Presidente di Finmeccanica: rifiutai perché la giudicai di fatto incompatibile con l’università. Il 14 giugno, un sabato mattina, mi telefonò il capo del Governo, Romano Prodi, proponendomi, anche a nome del Ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, e di quello dell’Industria, Pierluigi Bersani, la Presidenza dell’IRI, con il compito di collocarne le attività industriali sul mercato. Questa carica era incompatibile per legge con l’università, ma il mandato era esaltante per un economista con le mie convinzioni. Accettai, anche perché sapevo che dentro all’IRI avrei potuto contare su un management di livello eccellente. Fu una sfida non facile. Bisognava vendere bene le aziende, preservandone le capacità industriali e le attività in Italia. Alcune si potevano collocare senza problemi, per esempio le linee di navigazione marittima. Per altre non era facile trovare compratori: la società Autostrade, per esempio, suscitava pochissimo interesse, le manifestazioni espresse erano meno delle dita di una mano e stentavano a trasformarsi in offerte vincolanti. Altre ancora non si volevano cedere a compratori esteri, ma non si facevano avanti compratori nazionali validi. Il caso più emblematico era Finmeccanica, quotata in borsa ma con un prezzo inferiore al valore nominale: le regole europee contro gli aiuti di stato impedivano di immettere capitale nella società, che ne aveva bisogno, se non a parità di condizioni con gli investitori privati, ma nessun privato avrebbe sottoscritto nuove azioni al valore nominale se poteva comprarle in borsa ad un prezzo minore. Con una decisa azione manageriale e un nuovo piano industriale, aiutati dalla banca d’affari Schroeders, riuscimmo a far risalire il titolo e ad effettuare l’aumento. Finmeccanica fu risanata e non si vendette nessuna attività ad alta tecnologia. In poco più di due anni il bilancio IRI fu riportato in utile con una posizione finanziaria netta attiva, e un primo dividendo di mille miliardi di lire fu versato al Tesoro.
A fine 1999, sei mesi prima della scadenza del mandato triennale entro il quale avrei dovuto completare la privatizzazione delle controllate, il Governo, a capo del quale Romano Prodi era stato sostituito da Massimo D’Alema, mi chiese, su proposta del Ministro del Tesoro Giuliano Amato e del suo Direttore Generale Mario Draghi, di spostarmi dalla Presidenza dell’IRI a quella di Eni, dove occorreva metter fine al conflitto tra il Presidente Renato Ruggiero e l’Amministratore Delegato Vittorio Mincato.
La privatizzazione delle controllate IRI non era ancora completata, ma sembrava che i passi più difficili fossero stati compiuti. Venduti i pezzi più importanti che si volevano cedere, rimanevano quelli su cui si voleva mantenere il controllo, a causa del loro valore strategico, tecnologico e occupazionale: Finmeccanica e Fincantieri. Alitalia era stata avviata verso una combinazione molto interessante: una fusione con KLM, che deteneva una rete mondiale assai sviluppata, in particolare nel cargo, e buone capacità manageriali, mentre Alitalia avrebbe apportato il nostro più ampio mercato interno; sfruttando sinergie potenzialmente raggiungibili, il nuovo soggetto avrebbe potuto aspirare ad assorbire l’allora malandata Air France, diventando di gran lunga il maggior vettore europeo. In Eni non ebbi più pieni poteri, le deleghe spettavano tutte a Mincato, un manager eccezionale. Come prima cosa mi propose di presentare un piano a medio termine di discontinuità, che puntasse decisamente sulla crescita: esplorazioni e acquisti di giacimenti. A me sarebbe spettato principalmente il compito di convincere il nuovo Ministro dell’Industria Enrico Letta e il Parlamento a liberalizzare il mercato del gas in modo opposto a quanto fatto con quello elettrico: tutti i clienti liberi da subito, ma nessuno spezzatino forzato, come quello fatto con le Genco. Obiettivo raggiunto. Intanto Eni cominciò a crescere a dispetto delle diffidenze ini- ziali degli analisti rispetto al piano di discontinuità, e crebbe anche la sua immagine internazionale. A fine novembre 2000, in occasione della visita di Stato del Presidente Ciampi a Mosca, il Presidente Putin offrì una cena al Cremlino durante la quale ci volle ringraziare per il progetto del gasdotto Blue Stream, allora in costruzione con tecnologie e finanziamenti Eni, che passando sotto il Mar Nero a profondità mai toccate avrebbe permesso per la prima volta l’esportazione diretta verso la Turchia e da lì verso l’Europa. Su un altro fronte, tra Natale e Capodanno dello stesso anno Eni lanciò il suo primo takeover, su una società britannica quotata alla City, British Lasmo. Alla fine del mio man- dato, maggio 2002, la capitalizzazione di borsa di Eni era arrivata a 65 miliardi di euro, con un prezzo medio del petrolio di 25$/barile, rispetto ai 39 miliardi di fine 1999. Con la fine del mio mandato all’Eni terminò anche il mio “servizio” nelle società a controllo pubblico e potei riprendere servizio all’università. A giugno 2002 divenni Presidente di Autostrade, ormai privatizzata al 100%, ma con un nocciolo di controllo del 30%: capi- tali esteri minacciavano una scalata, con l’appoggio di capitali italiani che miravano a uno spezzatino della concessionaria. Gli azionisti di controllo di Autostrade lanciarono un’OPA al termine della quale la percentuale di controllo superò il 50%: la società accelerò i piani di investimento e le iniziative per aumentare la sicurezza nel traffico. Nel 2006 la società, ribattezzata Atlantia, promosse un tentativo di fusione con la spagnola Abertis, da cui sarebbe nato il primo operatore infrastrutturale mondiale, che avrebbe avuto come primo azionista il gruppo italiano. Il Governo, nella perso- na del Ministro Antonio Di Pietro, si oppose al progetto e varò una nuova legge sulle concessioni che alterava unilateralmente il rapporto con i concessionari: Atlantia ricorse alla Commissione Europea, e dopo un lungo contenzioso, nel 2008 si arrivò ad una sistemazione soddisfacente, ma nel frattempo l’accordo con Abertis era sfumato. Atlantia si dedicò allora a nuovi investi- menti stand alone, in Cile, Brasile, Portogallo, India, Stati Uniti. Nel 2010 lasciai la Presidenza di Atlantia: nell’arco del mio mandato il titolo di Autostrade, poi Atlantia, si era collocato ai vertici della borsa italiana per total shareholder return. Durante quegli otto anni mi fu possibile, e interessante, assumere incarichi di advisor e di Consigliere indipendente in società quotate. Tra i primi ricordo in particolare quelli di membro dell’European Advisory Board di Rothschild & Cie Banque (2002-2005) e quello di Senior Advisor per l’Italia di Société Généra- le Corporate & Investment Banking (2005-2009). Tra i secondi, particolarmente avvincenti furono i nove anni da Consigliere indipendente di Fiat, sotto la Presidenza di John Elkann e con la guida di Sergio Marchionne: dai momenti più incerti e rischiosi, nel maggio 2005, al filing presso il NYSE per quotare FCA dopo la conquista di Chrysler. Sono ancora membro del CdA di Edison e sono divenuto Presidente di ASTM, secondo gestore autostradale italiano e quarto mondiale, con presenze importanti in Italia e in Brasile. Le mie esperienze decisionali nel modo della finan- za, dopo gli inizi con Cogesta, di cui ho già detto, fu- rono per molto tempo solo parziali e discontinue: fui membro (1995-97) del primo Comitato di Rating di Italrating, la prima società italiana di rating, e membro del CdA di Quantica Sgr, la prima sgr di ricerca autoriz- zata da Banca d’Italia. Nel 2000, su invito del Presidente Sergio Pininfarina, entrai nel CdA di Banca CRT e poi nel Comitato Esecutivo: ne uscii nel 2002 quando la banca fu assorbita in UniCredit. Fui Presidente di Perseo, holding di partecipazione finanziaria, dal 2005 al 2009, avendo quali soci Fondazioni ex-bancarie, Mediobanca e Aviva. Fui Presidente del Credito Piemontese dal 2009 al 2011, quando esso fu assorbito dalla controllante quotata Credito Valtellinese, di cui fui Consigliere dal 2010 al 2012. Durante la permanenza nel Gruppo del Credi- to Valtellinese, una Popolare molto legata al suo territorio, ho conosciuto l’efficacia di questo tipo di banche nello stimolare la crescita dell’economia con cui sono in simbiosi, e ho aggiornato le mie conoscenze di gestione bancaria. Dal 2012 al 2013 ho svolto le funzioni di membro del Consiglio di Gestione della Compagnia di San Paolo, fondata nel 1563 e una delle maggiori Fondazioni di origine bancaria. Facevo parte del Comitato Investimenti che si occupa di gestire l’impiego dell’ingente patrimonio della Compagnia, di cui circa la metà è rappresentata dalla partecipazione in Intesa Sanpaolo. Con l’aiuto di advisor internazionali migliorammo le metodologie di gestione degli investimenti. Fu un’esperienza utile per approfondire il ruolo che la legge attribuisce alle Fondazioni ex-bancarie e per comprendere come impostare i rapporti fra di esse e gli altri investitori istituzionali. Nel 2013-2016 ho lasciato la Compagnia, essendo stato eletto Presidente del Consiglio di Gestione di Intesa Sanpaolo. Ho così sperimentato un modello di governance per me nuovo, quello dualistico che prevede un Consiglio di Sorveglianza cui sono demandate le funzioni di controllo, e un Consiglio di Gestione che gestisce le attività di business, mentre la funzione strategica vede l’interazione dei due organi. Il triennio in tale posizione ha visto importanti novità. D’intesa con il Presidente del Consiglio di Sorveglianza, Giovanni Bazoli, in pochi mesi è stato nominato un nuovo Amministratore Delegato, Carlo Messina, che ha presentato un nuovo Piano di Impresa, immediatamente avviato. Nell’arco del triennio di mandato dei due Consigli, la capitalizzazione di borsa è all’incirca raddoppiata. È entrato in funzione il Single Supervisory Mechanism, con il quale la BCE vigila direttamente le maggiori banche europee. Sono stati impiegati strumenti nuovi, quali l’Asset Quality Review, gli Stress Test, il Supervisory Review and Evaluation Process. Per effetto del Quantitative Easing, la curva dei tassi e le condizioni di redditività delle banche sono profondamente mutate. Tutti questi cambiamenti hanno condotto a ritenere opportuna una modifica di governance, per adottare un modello più compatto, più veloce nelle risposte, più vicino ai problemi. Nel febbraio del 2016 l’Assemblea straordinaria di Intesa Sanpaolo ha adottato il modello monistico, in cui un solo organo esercita tutte e tre le funzioni: supervisione strategica, gestione, controllo; l’Assemblea ordinaria dell’aprile 2016 me ne ha attribuito la Presidenza con il 98% dei voti, confermando Carlo Messina nel ruolo di Amministratore Delegato e CEO. Oggi Banca Intesa Sanpaolo, facendo leva sul- la sua forza patrimoniale e organizzativa, si propone come operatore di avanguardia nel rinnovamento del settore bancario europeo, sia sul piano tecnologico che su quello del rapporto con i clienti, puntando in primo luogo sullo sviluppo del capitale umano. Negli ultimi 20 anni ho ricoperto a lungo funzioni di rappresentanza in organismi come il Direttivo di Confindustria, il CNEL, l’ABI, il World Economic Forum, l’Aspen Institute Italia, l’Arel e altri, dove ho potuto conoscere persone eccellenti e volenterose, dalle quali ho appreso molto, aggiungendo materiale per quella curiosità iniziale che ancora non mi abbandona.

Ci si può fidare delle banche?

La fiducia si basa sull’esperienza e sulla valutazione dei rischi. Aprii un libretto di risparmio presso l’Istituto Bancario San Paolo di Torino quando avevo nove anni: l’esperienza ininterrotta di oltre mezzo secolo mi dice che mi posso fidare, e adesso che sono Presidente di In- tesa Sanpaolo so perché. La valutazione dei rischi dovrebbe tranquillizzare i clienti di tutte le banche: non c’è nessun settore economico le cui imprese siano così attentamente e pervasivamente sorvegliate. La vigilanza oggi non si limita ad accertare l’osservanza delle regole: controlla la capacità della banca di onorare i propri impegni futuri e si propone di verificare che a ciascun cliente venga offerto il servizio a lui più appropriato, al costo corretto. I depositi sino a 100.000 euro sono garantiti dal FITD. Inoltre, le banche italiane hanno costituito e finanziato un Fondo di garanzia che interviene a tutela di tutti i depositi in caso di problemi, come quelli che si sono verificati per alcuni istituti; ad esso si affiancherà presto un fondo gestito a livello sovranazionale. Naturalmente, le banche più solide hanno situazioni patrimoniali tali da rendere superflui tali strumenti: si può dire, con fondamento, che esse vi contribuiscono solo per sostenere la fiducia generale nel sistema, ma non si troveranno mai nella necessità di usufruirne diretta- mente. Ma conviene investire in azioni o in obbligazioni bancarie? La risposta varia da una banca all’altra. Dipende dalla redditività della gestione, dalla sua sostenibilità nel tempo e dalla solidità del patrimonio; ma in primo luogo dalla rischiosità degli investimenti che la banca fa. Le banche italiane non fanno investimenti in finanza speculativa; i loro rischi consistono essenzialmente nel prestare denaro a imprese e famiglie, e si cautelano con adeguati accantonamenti. Gli azionisti di lungo corso della nostra banca hanno avuto un rendimento complessivo del loro investimento superiore alla media di borsa; gli obbligazionisti hanno sempre ricevuto gli interessi e i rimborsi di capitale dovuti.

Mi descrive una sua giornata di lavoro?

Il Presidente di una banca oggi (un tempo era diverso) fa un mestiere un po’ particolare: in Intesa Sanpaolo, come nella maggior parte delle banche, non ha poteri esecutivi, quindi si potrebbe dire che non ha nulla da fare, perché tutta l’operatività è affidata a dirigenti che ne hanno i relativi poteri. Per contro, è il legale rappresentante della società, quindi a lui fa capo in ultima istanza ogni responsabilità: deve pertanto accertarsi che tutte le attività siano eseguite correttamente. Secondo lo Statuto, egli “chiede e riceve” informazioni sull’attività sociale, rivolgendosi alle relative funzioni, anche a supporto del suo compito principale, che è quello di assicurare il funzionamento del Consiglio di Amministrazione, l’organo che assume le decisioni di vertice. In concreto ciò richiede una suddivisione molto variabile della giornata di lavoro: certi giorni sono quasi completamente assorbiti dalle riunioni consiliari, altri dalla preparazione delle stesse e dall’analisi dei relativi documenti. Almeno la metà del tempo è assorbito da attività di relazione, mediante documenti scritti, ma anche con la partecipazione ad incontri: con i dirigenti, con i Consiglieri, con le autorità di vigilanza, con i poteri pubblici competenti, con le realtà di mercato, con le istituzioni internazionali, con i rappresentanti delle diverse tipologie di azionisti, con le associazioni professionali, con esperti delle diverse problematiche cui la banca è interessata. È continua l’interlocuzione con il top management, in particolare con l’Amministratore Delegato che è anche Direttore Generale, ma anche con i diversi segmenti organizzativi che alla Banca fanno capo, in Italia e all’estero. In termini spaziali, la giornata di lavoro si svolge spesso in uno degli uffici della Presidenza, a Torino, sede legale, a Milano, dove si accentra gran parte dell’attività direzionale, o a Roma, dove avvengono molti incontri istituzionali; ma un tempo non piccolo viene trascorso preso sedi esterne (istituzioni, clienti, banche controllate, sedi locali) o partecipando a incontri e conferenze, nazionali e internazionali. In termini di contenuti, l’attività è principalmente di analisi dei problemi e dei documenti, di relazione e di comunicazione, anche pubblica; ma soprattutto di riflessione sulle situazioni in atto e su quelle prospettiche. Perché per mettere il Consiglio di Amministrazione in condizione di funzionare al meglio, che è l’impegno principale del Presidente, i problemi vanno presi in considerazione prima che si manifestino.

Lei ha letto montagne di libri. Quali sono i tre più amati?

Ho letto montagne di libri e continuo a leggerne con curiosità e piacere. Proprio perché sono montagne, credo che sia più significativo indicare i generi di letteratura che prediligo, non soltanto singole opere. Ovviamente leggo tanti libri di economia e di management. Mi piacciono i grandi classici, come Adam Smith, John Maynard Keynes, Joseph Schumpeter, Peter Drucker, e mi interessano le nuove proposte, come quella di Thomas Piketty. O anche coloro che analizzano storie aziendali: ho letto due volte Una storia italiana: dal Banco Ambrosiano a Intesa Sanpaolo di Carlo Bellavite Pellegrini. La storia è la mia seconda grande passione. Amo gli storici che spaziano su grandi orizzonti temporali e geo- grafici, come Fernand Braudel nel monumentale Civiltà ed imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. E quelli che sanno far rivivere il modo di essere, il senso di epoche passate, come Carlo Cipolla o Alessandro Barbero; anche di epoche molto lontane, come l’archeologo Paolo Matthiae nei suoi lavori su Ebla.
Infine mi interessano i libri di divulgazione scienti- fica, soprattutto di fisica, astrofisica, fisica quantistica, campi della conoscenza che hanno prodotto grandi cambiamenti, e molti più grandi ne produrranno: il li- bretto di Carlo Rovelli Sette brevi lezioni di fisica è una sor- prendente sintesi. Trovo inoltre affascinante alternare letture di fisica e di filosofia: due modi complementari di cercare la verità.