Il 16 ottobre 1943

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Sono passati tanti anni da quel giorno in cui la perfezione dell’orrore risucchiò nel suo gorgo la vita di 1259 ebrei romani, di cui 207 bambini.

È un tempo lungo quello che ci separa dalle immagini in bianco e nero dei tedeschi che circondano un intero quartiere, irrompono nella notte autunnale, setacciano le case, rastrellano uomini, donne, vecchi, bimbi, malati, disabili, tutti strappati al tepore dei loro giacigli, tutti in fila, smistati come cose, avviati alla stazione, inscatolati nei vagoni piombati dove il fischio del treno segnerà per loro l’inizio della fine.
Destinazione Auschwitz, tra le docce di gas e i forni crematori, in quello spazio infinito di fango e baracche, in quella ordinata efficiente discarica dell’ordine nazifascista, in quella burocrazia del male in cui Dio è morto.
Sono passati tanti anni eppure se passeggiate per il centro di Roma, a Ghetto, al Portico d’Ottavia, è come se quel giorno, quella notte di 78 anni fa, avesse lasciato le sue tracce sui palazzi, sulle finestre da cui si affacciavano le madri terrorizzate.
E sotto i nostri piedi quelle lamine di ottone, ciascun con un nome a dirci di una irripetibile vita stroncata dalla furia di quel giorno, di quella notte. Poiché questo è stato, questo è accaduto, a gente come noi, a famiglie come le nostre, nelle nostre città, noi non possiamo dimenticare. E non si tratta solo di un tributo alle vittime del passato, delle quali non dovremmo smarrire la memoria.
Ma di un dovere verso il nostro presente e il nostro futuro. Quella notte di ottobre del 1943 è cerchiata di rosso nel calendario della nostra coscienza.

Nichi Vendola