L’industria che cresce e il prezzo delle riforme non fatte

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Un precedente articolo del professor Marco Fortis – pubblicato dallo stesso quotidiano, con il titolo “Pil, quando l’Italia fa meglio della Germania”, lo scorso 7 gennaio 2020 – ha destato grande interesse, poiché ha dimostrato che, al netto del contributo della pubblica amministrazione (Pa), di difesa, sanità e istruzione, nel triennio 2015-17 l’economia italiana è cresciuta per tre anni di fila di più delle economie tedesca e francese. Fatto mai avvenuto da quando è iniziata la circolazione monetaria dell’euro. Pertanto, il professor Fortis torna sullo stesso tema, aggiungendo nuove evidenze, attraverso una valutazione più dettagliata del contributo dei diversi settori alla crescita delle quattro maggiori economie dell’Euroarea, estendendo la nostra comparazione alla Spagna.

“Senza un’analisi sufficientemente disaggregata – spiega il professore – almeno a livello dei maggiori settori economici in cui Eurostat scorpora la dinamica economica complessiva dei diversi Paesi, è impossibile comprendere perché l’Italia per lungo tempo sia cresciuta meno dei nostri maggiori partner. E nemmeno si può capire perché qualcosa è cambiato in meglio per noi negli anni più recenti”.

Ecco perché, spiega Fortis, diviene necessario procedere ad un’analisi settoriale. “Un confronto illuminante – prosegue Fortis – è quello tra la crescita economica aggregata e settoriale delle quattro maggiori nazioni dell’Euroarea prima della grande crisi del 2008-09, cioè nel 2007, e poi prima del più recente rallentamento del 2018-19 e della crisi dell’auto tedesca, cioè nel 2017”.

Diviene, dunque, interessante comparare il 2007 e il 2017, due anni che – pur essendo distanti fra loro – sono omogenei e comparabili, in quanto entrambi di massima espansione del ciclo dopo due lunghe fasi positive dell’economia europea. “Che cosa è cambiato da allora a oggi? E perché?”, si chiede Fortis.

Per rispondere a questo interrogativi, Fortis suddivide il valore aggiunto totale delle economie analizzate in quattro macro-settori, riaggregando opportunamente i 10 comparti base della classificazione Eurostat della contabilità nazionale:

a) i settori core dell’economia reale (1-agricoltura, silvicoltura e pesca, 2-industria escluse le costruzioni, 3-commercio, trasporti e turismo);

b) il settore della Pa e dei principali servizi pubblici collettivi (4-Pa, difesa, sanità, istruzione);

c) le professioni, le comunicazioni e le attività finanziarie (5-attività professionali, tecniche e scientifiche, 6-comunicazioni; 7-banche e assicurazioni; 8-attività artistiche, di intrattenimento, ricreative e sportive);

d) le costruzioni e le attività immobiliari (9-edilizia residenziale e opere pubbliche, lo-attività immobiliari).

Guardando ai dati del 2007, come ad una istantanea, spiega Fortis, nel 2007 l’Italia era inequivocabilmente fanalino di coda fra le quattro maggiori nazioni dell’Euroarea, “con la crescita aggregata più bassa (+1,6% rispetto al 2006), dietro Spagna (+4,1%), Germania (+3,5%) e Francia (+2,6%)”. Non solo: il nostro Paese era “ultimo per crescita in tutti i quattro principali macro-settori qui considerati: ultimo nelle Pa, ultimo nelle professioni, comunicazioni e finanza, ultimo nelle costruzioni e nell’immobiliare e ultimo ex aequo appena sopra la Francia nei settori core dell’economia reale”.

Passando all’analisi del 2017, Fortis fa notare come l’istantanea della situazione economica fosse molto diversa: “l’Italia è ancora ultima per crescita aggregata (+1,9% rispetto al 2016), ma appare meno distante da Francia (+2,1%) e Germania (+2,5%) e addirittura davanti a esse escludendo le Pa”, come Fortis ha già evidenziato nel precedente articolo sopracitato. “Solo la Spagna – spiega Fortis – si caratterizza per un tasso di crescita aggregato più alto del nostro, anche senza Pa”.

Tuttavia, prosegue Fortis, nel 2017 osserviamo una vera novità: “l’Italia passa in testa alla graduatoria per crescita dei settori core dell’economia reale (+1,4%), trainata soprattutto da industria, commercio e turismo, davanti a Germania (+1,3%), Spagna (+1,2%) e Francia (+0,7%). Si tratta di un evento senza precedenti da quando esiste l’euro, che si è ripetuto inerzialmente, pur in una fase calante della congiuntura europea, anche nel 2018, con l’Italia sempre davanti agli altri Paesi”.

Che cosa era accaduto? Era accaduto, spiega Fortis, che “la stagione di riforme e di riduzione della pressione fiscale su imprese e famiglie, di crescita dell’occupazione e di stimolo degli investimenti avviata nel triennio 2015-17 ha determinato un cambio di passo decisivo nei settori core dell’economia reale italiana”.

Tuttavia, fa notare Fortis, purtroppo le riforme sono rimaste solo sulla carta o sono state appena abbozzate nella Pa, nelle professioni e nel settore bancario, dove la distanza tra noi e la crescita degli altri Paesi resta ancora forte. Così come il settore immobiliare e delle costruzioni che, provenendo da lunga crisi, restano stagnanti.

Insomma, spiega il professore, “non sta scritto da nessuna parte che il nostro Paese sia condannato a crescere meno degli altri. Laddove sono stati introdotti cambiamenti lungamente invocati (anche se poi non apprezzati o riconosciuti) l’economia italiana è riuscita a superare le altre maggiori nazioni dell’Euroarea, come è accaduto nei settori produttivi core. Ciò dimostra che nell’industria, nell’agricoltura, nel turismo e nel commercio l’Italia può essere dinamica e competitiva”.

“Se la nostra economia nel suo complesso non cresce abbastanza – prosegue Fortis – non è per colpa delle imprese manifatturiere troppo piccole, perché facciamo poca ricerca o innovazione, perché non esportiamo abbastanza o per altri abusati luoghi comuni che si sentono ripetere da anni. Ma è perché nei settori diversi da quelli produttivi core non vi è stato alcun cambiamento sostanziale”.

“”Lo Stato – spiega il professore – in molti suoi ambiti rimane inefficiente ed è solo in minima parte digitalizzato””. A questo si aggiunge che “i servizi pubblici creano poco valore aggiunto; la burocrazia continua a frenare il settore privato”. Inoltre, “le professioni sono state poco liberalizzate e si sono poco ammodernate; il sistema economico nel suo complesso soffre di una carenza preoccupante di professionalità tecniche; e una parte del mondo bancario ha mal digerito le riforme opponendo forti resistenze e distruggendo nel frattempo ulteriore patrimonio e valore (vedasi il caso delle banche popolari)””.

Infine, conclude Fortis, c’è il caso delle opere pubbliche, che “sono drammaticamente necessarie per rendere le infrastrutture del nostro Paese più moderne ed efficienti” e che “purtroppo sono ferme a causa della burocrazia o per i veti antistorici dei populismi e dei nuovi regionalismi”.