Nato-Ue e il sovranismo in salsa macroniana

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Il cambio di interlocutore al di là dell’Atlantico mette ineluttabilmente i Paesi europei di fronte alle loro responsabilità in ogni ambito: non sarà più possibile nascondersi dietro il dito della pretesa inaffidabilità del partner statunitense o cercare di lucrare qualche modesto vantaggio individuale, a scapito dell’interesse comune. Il metodo multilaterale, con tutti i suoi limiti, tornerà a essere quello che caratterizzerà i futuri rapporti e per sfruttarne appieno le potenzialità sarà necessario un accurato lavoro per integrare i singoli miopi interessi nazionali in un’organica e condivisa visione che abbia un orizzonte adeguato ai tempi. L’inarrestabile fenomeno della globalizzazione, inevitabile risultato della straordinaria accelerazione dei trasferimenti di idee e merci permesso dai mezzi reali e virtuali a disposizione, impone l’allargamento della visuale non solo al di là dei propri angusti giardinetti nazionali, bensì anche oltre i limiti a suo tempo definiti nel Trattato del Nord Atlantico, per abbracciare geograficamente anche aree lontane, includendo anche l’evoluzione dei rapporti geostrategici nel quadrante indo-pacifico.
Non si vuole con ciò certo dire che la Nato debba allargare la sua area di interesse operativo al di là dei confini a suo tempo stabiliti, bensì che l’Alleanza deve servire a un progetto ben più ampio di quello definito nel 1949 a Washington, per garantire una stabilità globale e la salvaguardia degli interessi collettivi (che vanno bene al di là di quelli comuni) della comunità occidentale.

In quest’ottica, il concetto di “autonomia strategica”, che spesso ricorre nel dibattito europeo, deve essere inteso, come esplicitato dalla ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer nel suo recente discorso ad Amburgo, non nel distacco dell’Europa dagli Stati Uniti, bensì nel giungere alla capacità di operare da protagonisti, eventualmente con il supporto di alcune capacita Usa peculiari, per la salvaguardia nella sicurezza nel quadrante che comprende tutto il continente e si estende al Mediterraneo allargato, incluso il Medio Oriente, e all’Africa boreale, sgravando gli Stati Uniti di una parte importante dell’onere finora sopportato e che viene quantificato nel 70% delle capacità operative dell’Alleanza.

Si era ampiamente parlato all’inizio del secolo di una sorta di divisione del lavoro tra Nato e Unione Europea, nel senso che la prima si sarebbe fatta carico degli interventi di hard power, mentre la seconda, sfruttando le proprie capacità peculiari, si sarebbe curata di assicurare la stabilità nell’area di interesse utilizzando gli strumenti del soft power, con ciò, tuttavia, sancendo una sorta di subalternità. Un approccio come quello illustrato costituirebbe invece una divisione del lavoro in senso geografico, con gli Usa che potrebbero concentrarsi sullo scacchiere Asia-pacifico dove già oggi si sta materializzando la più seria sfida per il posizionamento strategico di Washington.

Quale che sia il rapporto di mutua collaborazione fra le due sponde dell’Atlantico, i Paesi europei non possono sfuggire alla necessità di un sostanziale incremento delle loro capacità operative, necessità da tempo riconosciuta con la sottoscrizione dell’impegno ad incrementare le spese per la difesa al 2% del prodotto interno lordo. Ma attenzione a non focalizzare l’attenzione solo su questo parametro finanziario, dal momento che è molto più importante il “come si spende” del “quanto”, e da questo punto di vista il panorama europeo è quanto meno desolante: le diseconomie dovute alla frammentazione strutturale, all’incapacità di stabilire un vero mercato comune della difesa, alla strenua protezione dei “campioni nazionali” industriali sono tali da vanificare qualsiasi sforzo di tipo finanziario e bene si fa a difendere un’iniziativa come quella dello European Defence Fund, che ha il potenziale di stimolare un salto di qualità nella collaborazione tra i Paesi e le relative industrie per lo sviluppo di sistemi d’arma comuni. Un progresso in questa direzione ha il potenziale di mutare sostanzialmente il quadro, a patto di non avere la recondita intenzione di strumentalizzare ai propri fini nazionali una nascente capacità autonoma europea: in questa tentazione non deve cadere il presidente francese Emmanuel Macron, che pure ha le idee molto chiare su quanto c’è da fare in un’ottica strategica; sarebbe un errore esiziale, che minerebbe alla radice la stessa coesione interna all’Unione e darebbe argomenti formidabili all’anima trumpista di una fetta non certo indifferente dell’opinione pubblica americana.

Di Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa e membro del comitato promotore di Azione.