New Camp, l’inferno organizzato per i profughi a Lesbo

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“Quando sono partita, tanti mi chiedevano perché o plaudevano al coraggio, ma ora che sono tornata mi rendo conto che ci vuole molto più coraggio a rientrare, lasciando là tutte le famiglie
conosciute in pessima situazione, pensando all’inverno che arriva”.
Un inferno organizzato

A parlare è Mirca Leccese, torinese, al suo ritorno da Lesbo, dove si è recata con un’amica in qualità di volontaria presso il locale campo profughi. Quello che ha visto è un inferno organizzato, una tendopoli dove convivono 10.000 persone in condizioni estreme, le quali non potranno che peggiorare al sopraggiungere della stagione invernale. “New Camp”, così chiamano ciò che è stato realizzato su un terreno di fronte al mare, alle spalle la polizia, dopo l’incendio al campo di Moria.

Per quella moltitudine variegata sono disponibili solo 40 bagni chimici, senza docce. “Si lavano con l’acqua conservata in bottiglie di plastica, in bagni di fortuna – racconta Mirca –, molti fanno il bagno in mare, anche le donne. Non oso pensare come faranno con il freddo”. Viene dato loro dal governo greco un pasto al giorno, di qualità scadente, e una bottiglia d’acqua. “A Torino abbiamo raccolto del denaro da destinare ai profughi, inviato poi all’attivista umanitaria Nawal Soufi. E’ stata lei a suggerirci come organizzare le giornate in Grecia, dove e cosa acquistare. Lì c’è bisogno di tutto, dai generei alimentari alle medicine, dalle stufette al latte in polvere”: Mirca ci dice che nel campo non c’è il gas, la corrente elettrica viene erogata solo di sera, i bollitori e le pentole elettriche sono utili, oltre che per preparare il pasto serale e riscaldare il latte ai bambini, anche per bollire l’acqua non potabile.
Il lavoro delle Ong

Per fortuna, le Ong presenti sopperiscono come possono ai limiti evidenti delle politiche governative greche ed europee. Altri soldi portati dall’Italia sono serviti per aiutare a pagare il passaporto a qualcuno, a un palestinese, ad esempio, che finalmente potrà ricongiungersi con il resto della famiglia in Olanda, o a pagare un avvocato per difendere un ragazzo.

Da New Camp durante il giorno si può uscire e chi lo fa si disperde per le strade di Mytilini, in attesa del tardo pomeriggio, perché alle otto si è obbligati a rientrare. La popolazione locale è diffidente, buona parte non sopporta i profughi, lo si capisce anche da piccoli particolari: “La gentilezza iniziale delle commesse della Lidle è svanita nel momento in cui hanno capito che noi stavamo acquistando tutte quelle cose per gli ospiti del campo”, commenta Mirca. Il parcheggio del supermercato, subito dopo l’incendio a Moria, li aveva visti ammassati, all’addiaccio, i bambini con gli adulti, senza nessuna tutela o protezione umanitaria.

Ora nella tendopoli esiste un centro Covid, i tamponi sono stati fatti a tutti, il controllo della temperatura è quotidiano per chi rientra di sera.

Mirca ci fornisce alcune cifre significative. Tra i profughi, il 30% sono minori, dei quali il 12% non accompagnati, il 49% uomini, il 21% donne, la maggior parte molto giovani. Il 49% sono afghani, i 19% siriani, il 6% congolesi. Afghani e siriani sono arrivati in autobus o a piedi fino in Turchia, quindi, in gommone fino a Lesbo, i congolesi, invece, in aereo, poi in gommone. Ancora il 6% viene dalla Palestina, il 6% dalla Somalia, il rimanente 16% da altri Paesi.
Bambini senza scuola

Una cosa che salta agli occhi sono i tanti bambini, i quali masticano qualche parola di inglese, si intrattengono volentieri con i volontari, sorridono, giocano. La maggior parte di loro, i siriani, ad esempio, non hanno mai potuto frequentare una scuola. Anche a New Camp manca la scuola. E questo fa male più del resto, perché sembra non esserci scampo per una generazione che non conosce i banchi, i libri, i quaderni, la vita di classe. Un futuro fortemente compromesso, come se non bastassero la guerra, aver sentito le bombe e visto la morte, la fuga a piedi, la fame e il freddo, il mare alto. I bambini, ovunque e anche qui, non hanno colpe, e tra le colpe più grandi degli adulti c’è quella di escluderli dalla formazione scolastica e condannarli alla povertà educativa. Mirca è una docente di Lettere in pensione, questo aspetto l’ha toccata nel vivo. A Lesbo ha sentito dire che probabilmente tutti i profughi saranno trasferiti nel bosco di Kalloni, lontano dal paese, dalla vista​ dei più fortunati. Più distanti sono, meno la nostra coscienza ne sarà colpita. Coscienza, una parola
grossa dalle nostre parti…

“E che il mondo sia salvato dai bambini che riescono a giocare pure in un campo profughi, che ci corrono incontro per farsi fotografare o per scambiarci il saluto con i gomiti, che si sporcano e ridono come tutti i bimbi del mondo. E dalle loro mamme… – dice Mirca. Mi scriverai? Ti mando le foto dei bambini, quando torni? Mandami la foto di tua figlia, saluta i tuoi genitori, ci vediamo su facebook? Ti scrivo dalla Germania, appena arrivo, o magari verrò in Italia? Ma certo, vorrei dire, ma poi penso al nostro Paese: che pessima accoglienza avrebbero, tra razzismo e sfruttamento! Mi consolo pensando che forse questi bimbi, crescendo in mezzo a mille difficoltà saranno più forti e riusciranno a crearsi un futuro, devo sperarlo per loro e per me, se no non sarei venuta qui”.

Se il mondo, l’umanità, saranno salvi, lo dovremo anche ai tanti che provano a dare loro sollievo memori di quella bella lezione di xenìa, ospitalità, che proprio in terra di Grecia fu impartita, là dove oggi, a causa di politiche miopi, si dà spesso spazio alla guerra tra povertà diverse, dimenticando che o si è liberi insieme o non lo è nessuno.                                                                                                                               Di Tania Paolino