D’Alema: nel draghismo vedo un’esplosione di spirito antidemocratico

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Massimo D’Alema ci accoglie nel suo studio alla fondazione Italianieuropei, due grandi finestre sui tetti di Roma, sulle librerie i cimeli e i ricordi di una vita.

Accenna a una futura missione nell’Artico «per tentare di demilitarizzare il Polo Nord. Un tema che mi appassiona moltissimo». Si avvicina a una mensola ed estrae un grosso volume rilegato in pelle nera: «Ecco, è il primo numero della rivista. Era il 2001, ci interrogavamo con Giuliano Amato e altri su come la sinistra potesse condizionare la globalizzazione neoliberista: l’idea fondamentale era che l’integrazione europea potesse costruire una soggettività politico-istituzionale in grado di dominare i processi di globalizzazione. Così non è stato: la costruzione europea ha preso una torsione ordoliberale». «Ora – prosegue iniziando a torturare con sapienza uno dei suoi famosi origami – stiamo vivendo la fine del lungo ciclo neoliberista».

È davvero arrivato alla fine?

Quel processo è stato scosso dalla crisi del 2008, ma non messo in crisi. La pandemia agisce più in profondità, tocca la dimensione antropologica. Non a caso si ripropone una gerarchia di valori fondamentali: il discrimine tra destra e sinistra in tutto il mondo è tra chi adotta il principio di cautela e fa della difesa della salute il cardine delle politiche pubbliche e chi invece difende la logica del profitto a rischio della vita. Come Bolsonaro e Trump, così anche in Italia. E siamo di fronte a rischi regressivi: dalla globalizzazione liberista si può uscire anche con un ritorno ai nazionalismi e alla politica di potenza, con i rischi di una nuova guerra fredda.

C’è la concreta possibilità di una uscita a sinistra dalla pandemia?

Il quadro internazionale è incerto ma aperto. I democratici americani e la socialdemocrazia tedesca sono al governo. C’è un tentativo di rilancio neokeynesiano, la ripresa è improntata al protagonismo delle politiche pubbliche in una misura che non vedevamo da oltre trent’anni. Il piano di Biden, che in parte si è arenato, aveva dimensioni roosveltiane, sia nelle opere pubbliche che nelle politiche sociali.

L’Ue è uscita dalla logica dell’austerità, anche se ci sono spinte per tornarci. Next Generation Eu non è solo un piano espansivo, ma anche un programma volto a garantire una riconversione ecologica e la riduzione delle diseguaglianze sociali. C’è dunque una potenzialità. Oggi piangiamo David Sassoli, un amico che ha dato un contributo molto importante alla svolta europea e ha lasciato un vuoto che non sarà facile colmare.

Per tornare all’America c’è però una crisi dell’amministrazione Biden.

La verità è che un New deal non regge un rilancio della guerra fredda: è la maggiore contraddizione della politica americana. La classe dirigente occidentale si trova a gestire una fase storica di ridimensionamento, che è cosa diversa dal declino, tuttavia è un dato oggettivo. In un mondo in cui si riaprono faglie e rischi di guerra, è più facile che torni a vincere la destra. Il nodo è come tenere insieme l’inevitabile competizione e la necessaria collaborazione con la Cina, e l’Europa paga prezzi ancora maggiori in questa contrapposizione con Russia e Cina.

Una crisi della democrazia che in Italia pesa particolarmente.

Siamo l’unico paese democratico dove la transizione post 1989 ha portato alla distruzione di tutti i partiti che avevano costruito e innervato la Repubblica. Non siamo riusciti a costruire rinnovati soggetti politici e a rinnovare le istituzioni nel segno dei principi e dei valori che animano la prima parte della Costituzione. In questa crisi ha giocato un ruolo una borghesia come quella del nostro Paese che, nelle sue élite economiche, ha sempre avuto una profonda diffidenza verso il sistema democratico.

E ora siamo all’ennesimo governo tecnico.

Draghi è stato chiamato ad affrontare un’emergenza. Lo fa certamente con autorevolezza e competenza. Ma quello che io trovo davvero impressionante è il “draghismo”, e cioè che uno stato di eccezione venga eletto a nuovo modello democratico. Sui grandi giornali ho letto cose inquietanti che mi sono appuntato, tipo «finalmente abbiamo un premier di cui non si sa per chi vota, dunque non può perdere le elezioni amministrative». Vorrei che mi si indicasse un paese democratico al mondo in cui non si sa per chi vota il capo del governo. Altra frase inquietante: «Bisogna fare in modo che Draghi resti a palazzo Chigi a prescindere da quale sarà il risultato delle prossime elezioni». Se il messaggio è questo come si fa a chiedere alle persone di andare a votare? Ancora: l’idea che possa governare dal Quirinale mettendo una persona di fiducia a palazzo Chigi. Un’esplosione di antipolitica, elitismo e spirito antidemocratico. L’apice si è raggiunto quando si è scritto che il problema non è quello che pensa il Parlamento bensì quello che vuole Goldman Sachs a proposito della collocazione futura del presidente Draghi. È umiliante per il nostro paese. Ma oltretutto, queste considerazioni sono sciocche perché alimentano delle aspettative messianiche che sono inevitabilmente destinate ad essere deluse, generando qualunquismo e sfiducia.

Il premier è vittima o beneficiario di questo meccanismo?

Io penso che questa ondata lo danneggi.

Lui però ci mette del suo, quando dice che il governo ha finito il suo compito e lui è pronto a fare il «nonno a disposizione delle istituzioni».

Purtroppo la recrudescenza della pandemia prolunga l’emergenza. E la messa a terra del Pnrr è tutta da realizzare, anche se sono stati finora compiuti tutti gli atti necessari.

Che giudizio dà nel merito sul governo Draghi?

Il premier svolge efficacemente il suo ruolo internazionale spendendo la sua forte credibilità, a Bruxelles e con gli Stati Uniti. Sul lato interno fa il possibile con una maggioranza contraddittoria e inevitabilmente divisa, cerca i compromessi possibili. Fa politica quindi, misurandosi con una realtà rispetto alla quale non esistono super poteri in grado di produrre soluzioni miracolistiche.

Sul Quirinale che strada vede?

Mai come in questo momento serve un’intesa tra le forze politiche, altrimenti si rischia il caos. Il centrosinistra in passato, pur avendo la maggioranza dei grandi elettori, non ne ha mai abusato proponendo figure che non dividevano il paese, come Ciampi, Napolitano e Mattarella. Oggi nessuno ha la forza di governare il processo. Sarebbe importante che le forze politiche si vincolassero ad avanzare ipotesi di candidature femminili. Dopo 70 anni, e in una fase di crisi profonda del sistema democratico, sarebbe un segnale importante.

Secondo il Corriere la sua preferenza andrebbe a Letizia Moratti.

Non sono nelle condizioni di avere preferenze. E se le avessi indicherei una donna del centrosinistra.

La candidatura di Draghi resta la più forte ai nastri di partenza.

Se i partiti ritengono che l’unica personalità su cui si può trovare una larga convergenza è quella di Draghi, questo però richiede un accordo per il governo. In questo scenario confuso vedo un unico disegno chiaro, quello della destra di Giorgia Meloni: eleggere il premier con buona pace del folle tentativo di Berlusconi di assaltare il Quirinale. Così si pagherebbe un ticket di legittimazione agli occhi dell’establishment internazionale per poi andare subito alle elezioni con questa legge elettorale. Questa almeno è un’agenda politica, che io ritengo dannosa. Il resto dello scenario mi pare confuso.

Torniamo all’ipotesi di un governo di fine legislatura. Non serve soltanto un nome, ma una maggioranza e un’idea su come arrivare al 2023.

A mio avviso questo progetto dovrebbe avere un duplice contenuto: il primo di carattere sociale, visto che la ripresa economica sta avvenendo all’insegna di una ulteriore precarizzazione del lavoro, giustamente denunciata da Landini. La pandemia ha aggravato le disuguaglianze, serve un nuovo patto sulle tutele del lavoro.

Il governo in questo anno non ha agito adeguatamente?

Il tema sociale non mi è parso in cima all’agenda, ed è la comprensibile ragione dello sciopero di Cgil e Uil. Anche se contro di loro si è scatenato il finimondo.