La politica che trae profitto dall’arrivo degli immigrati

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I conti sono presto fatti: la paga giornaliera di un bracciante agricolo dovrebbe aggirarsi sui 65 euro per 7 ore di lavoro.

Invece nelle aziende poste in amministrazione controllata dalla Procura di Foggia per reclutamento e sfruttamento della manodopera immigrata, la paga era di 35 euro al giorno, ma ai lavoratori ne venivano in tasca solo 25 perché ben 10 euro gli venivano trattenuti per il trasporto e per la mediazione illegale dei caporali.

Mantenerli sottomessi senza diritti civili e sindacali, dunque, presenta un duplice vantaggio. C’è la convenienza economica: li paghi la metà del dovuto. E c’è la convenienza politica: nel frattempo puoi accanirti nella propaganda contro la “piaga” della “clandestinità”. Magari rivoltando la frittata e accusando, come hanno fatto ieri i giornali della destra, la “sinistra buonista” che avrebbe concesso loro di violare i sacri confini della patria, e agitando con lingua biforcuta lo scandalo dello schiavismo. Il classico predicare bene e razzolare male.

Sono misfatti risaputi, pratiche abituali che non fanno più notizia. Stavolta però il diavolo ci ha messo la coda. Tra gli indagati figura la moglie di Michele Di Bari, il prefetto (dimissionario) chiamato da Salvini alla direzione del Dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale. Lo stesso funzionario che fra il 2017 e il 2019, alla prefettura di Reggio Calabria, dispose le ispezioni che hanno portato all’incriminazione di Mimmo Lucano e alla demolizione del modello di accoglienza del comune di Riace.

Ora tutto è più chiaro. Interi settori della nostra economia, dall’agricoltura, alla logistica, ai servizi, si reggono sullo sfruttamento dei migranti; nel mentre chi ne trae profitto non si merita di tuonare contro l’“invasione straniera”. Per questo il modello Riace dava tanto fastidio.

GAD LERNER